C’è un giorno di inizio per i cambiamenti?
Non lo sai mai quando iniziano i cambiamenti, solo a volte, a posteriori, fissi momenti e circostanze e ti rendi conto che il filo ha cominciato a srotolarsi più chiaramente da lì: per un po’ di tempo un ragno ha tessuto la tela nell’angolo della tua casa, non ti sei accorta di nulla fino a quando – un giorno – in controluce, non hai visto il quadro ormai composto.
Due anni fa era il 5 novembre.
Avevamo gattini in casa che cominciavano a girare ovunque, tutto l’appartamento era intriso dell’odore pungente della loro piscia: ricordo che passavo moltissimo tempo a pulire e altrettanto a raggomitolarmi con queste bestiole e la loro mamma, rivivendo in parte quel senso di nido che avevo provato nei primi mesi di vita di mia figlia.
Due anni fa era il 5 novembre e nel mezzo della sera mia figlia ebbe un incidente gravissimo e insieme innocuo: era in auto, non era con me, non era con suo padre.
L’incidente gravissimo produsse un morto: un ragazzo di 21 anni si spezzò la vita ma quella di mia figlia, del suo amico e del papà del suo amico rimasero illese.
Mia figlia si ruppe la clavicola e un dente e i medici dell’ambulanza che ce la portarono in ospedale – e di cui non riesco a dimenticare la dolcezza e la cura – ci dissero che eravamo stati fortunati, molto, che anche se lei aveva qualcosa di rotto di certo, dovevamo ringraziare Dio, se ci credevamo, o chi per lui. Era viva.
Io mi sentivo come una che ha ingoiato un pezzo di acciaio, intero, freddo, indigesto, ma è riuscita a mandarlo giù.
Una parte di me era felice e una parte di me pensava a tutti i “se” e i “ma” della circostanza.
SE il nostro amico che guidava non fosse stato così bravo e prudente, lo schianto avrebbe prodotto ben più di un morto e la vita di tutti noi sarebbe cambiata per sempre.
Mia figlia era viva MA il figlio di un’altra donna era morto.
La notte, in ospedale, la passai raggomitolata su una sedia, accanto a frollina che un po’ si lamentava, un po’ dormiva.
La guardai a lungo, piansi a lungo.
Rimasi accartocciata, come se il mio corpo chiedesse di stare scomodo, di rimanere contratto: non lo sapevo ancora, ma stavo dichiarando guerra alla mia schiena che da lì a pochi giorni avrebbe cominciato a sgretolarsi dolorosamente – una vertebra alla volta – come fosse un domino i cui pezzi sono concatenati.
Ringraziavo il destino per la nostra seconda possibilità, ringraziavo mia figlia perché anche in questa situazione riusciva a essere ironica e a tratti cazzona, alleggerendo l’atmosfera.
Per qualche settimana ho vissuto come se il mondo fosse dotato del sottosopra di Stranger Things: si preparava il Natale e io vedevo le lucine delle case, i balconi occupati da Babbo Natale e renne e d’un tratto, quando meno me lo aspettavo, tutto si trasformava e diventava spesso e grigio perché mia figlia (o era il figlio di un’altra donna?) era morta.
Niente lucine, solo dolore. Niente Natale, solo fine.
Non so se stavo già vedendo la ragnatala che Aracne aveva tessuto per me, ma cominciai a domandarmi cosa dovevo imparare da quel 5 novembre, che cosa poteva non andare sprecato di tanta fortuna e tanto dolore insieme.
Cominciai a interrogarmi su molte cose, cominciai anche a piangere spesso. Cominciai a sentirmi in bilico sul filo di quella che allora era la mia vita e di cui non mi chiedevo più nulla, anche se a lampi sentivo un disagio.
Cominciai a capire che quel nido caldo e accogliente che mi ero costruita, le confortevoli certezze dell’esistenza, non erano poi tanto certezze.
Cominciai a interrogarmi sul senso che volevo dare al mio stare nel mondo, al mio stare bene nel mondo. Cominciai a chiedermi quale responsabilità avessi nei confronti di mia figlia e di me stessa.
Autenticità. Profondità. Amore. Vivere non mille ma una vita e viverla bene. Sentirsi nel posto giusto.
Sono stati i due anni più duri della mia vita da quando è nata frollina: ripenso alla fatica di quando era neonata e non dormiva mai, a come mi sentivo persa e triste e inadeguata e sorrido, perché allora non sapevo cosa sarebbe stato sentirsi persa, finita, nella nebbia. Nel 2006 non sapevo che ci sarebbe stato un giorno in cui avrei iniziato a rosicchiare il mio cordone ombelicale con denti acuminati e dolorosi, per ritrovare me stessa. Non sapevo che avrei avuto sconforto, paura, disperazione e mi sarei sentita così sola da commettere un mucchio di errori a catena, una catena infinita di piccoli sbagli che avrebbero desertificato il mio cuore.
Il 5 novembre 2017 non lo sapevo ancora, ma quello era il giorno in cui iniziava quella catena di eventi, di pensieri, di decisioni e di momenti che mi avrebbe portata a oggi. Il cambiamento era già in atto, sicuramente, ma io da quel giorno ho cominciato a vedere la mia ragnatela sul soffitto: un intrico di fili che si manifestano solo se hai la pazienza di guardare in controluce.
Oggi mi sento contenta di tutte le scelte fatte che comunque hanno un prezzo.
Ho lasciato la casa che amavo e che avevo costruito insieme a un’altra persona, negli ultimi 18 anni.
Mi metto di continuo alla prova riguardo alla paura della solitudine e dell’abbandono: quando mia figlia non è con me mi sento monca (e forse non passerà mai) ma vivo la vita che voglio.
Sono autentica. Posso essere autentica con lei.
Il suo papà e io – malgrado separati – le diamo tantissimo amore e ce lo diamo a vicenda nel modo giusto, il modo giusto per due persone che non si amano più.
Sto costruendo la mia casa sbilenca, dove i quadri sono storti perché sono una frana con il martello, i mobili sono riciclati e i vestiti giacciono appallottolati nell’armadio. È una casa accogliente, che sto riempiendo di libri che ricompro (tutti quelli che avevamo preso insieme – Tino e io – e che sono rimasti nella sua casa), sto riempiendo di nuovi ricordi e storie. Il mio angolo giallo comincia ad assomigliare a me e mia figlia, che ora ha 2 case e forse ogni tanto si sente un po’ persa per questo, ma sa che l’amiamo e ci è sempre rimasta vicina in questo lungo anno di traslochi.
Mi sono innamorata. Di nuovo. Un amore delicato, fatto di case separate, settimane che non ci si vede perché ci abbiamo entrambi da lavorare altrove e giorni intensi di risate, racconti messaggio sui telefoni bottiglia, paura e voglia di conoscersi, corrispondenza e piccole cose.
Sono stati due anni difficili ma non sono rimasta accartocciata su quella sedia d’ospedale: malgrado la schiena sgangherata ho continuato a camminare, prima in mezzo alla nebbia, poi nella luce sempre più chiara del mattino.
Perché era l’unica cosa da fare.
Perché la vita ci stava dando una seconda possibilità e anche se nessuno di noi allora lo sapeva, quel 5 novembre 2017 era il primo giorno del nuovo. Con autenticità e gratitudine e con la responsabilità di vivere anche per chi non c’è più.
Cara Francesca,
avendo conosciuto di persona sia te che la tua splendida ragazzina, le tue parole assumono per me una particolare densità. Capisco e condivido fino all’ultima virgola.
Sei una persona coraggiosa, e stai costruendo un piccolo pezzo di mondo giallo a tua misura ma aperto agli altri. Non è sbilenco credimi, di certo è accogliente e caldo.
Un abbraccio a entrambe 🙂
Enrica
Enrica GRAZIE! Sono stata così felice di conoscerti…
il giorno di inizio del cambiamento è quello in cui ci accorgiamo che tutto è già cambiato…
Sono veramente onorato di averti conosciuto.
Pier